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Dal libro «Baiano» del professore Enrico De Falco

(Origine – Sviluppo e Vicende di un Casale di Avella);

Editrice “Laurenziana” di Napoli; 1985; da pagina78 a pagina 82.

 

UNA FESTA PAGANA: IL MAIO

 

            I romani antichi chiamavano Campania felix il territorio della provincia di Napoli e di parte delle province di Caserta e Salerno, grosso modo corrispondente a tutta la zona pianeggiante della regione; al centro di quest'area trovasi l'agro nolano, terra fertilissima con più produzioni all'anno. Le plebi rurali che l'abitavano e che avevano più sensibilità e fantasia che intelletto, non poterono non essere colpite dalla varietà delle stagioni legata alle molteplici fasi della vita vegetale: fu facile personificarle miticamente in una divinità che ogni anno moriva per resuscitare. E siamo al mito della Gran Madre Cibele.

            Antichissima dea della fertilità della terra, e quindi procreatrice di ogni cosa, il suo culto ha origine in Frigia, di dove passa in Grecia, e infine all'epoca della seconda guerra punica, circa il 205 a.C., è introdotto in Italia. Nell'area campana, però, da tempo il culto di Cibele era stato importato dai coloni greci di Cuma, di Puteoli e di Neapolis; essi, spingendosi in un secondo momento verso Nola, Avella e Avellino, raggiunsero il Partenio ove portarono il loro gran nume tutelare, il cui tempio dovette costituire come un centro di attrazione e di unione tra le diverse colonie greche della Campania. Il santuario sarebbe sorto a cavallo tra il quarto e il terzo secolo a.C.; i greci lo chiamarono Parthenios — monte sacro alla vergine Cibele —, e i romani Cibellinus, e vi istituirono le megalesie, termine che dal greco « megàle méter » suona festa della Gran Madre. Essa si celebrava a primavera con un rito orgiastico più forte di quello in uso pei i baccanali o saturnali: gente di ogni classe sociale, ma principalmente plebei furenti di libidine, tra grida selvagge e suoni di corni, pifferi e timpani, a piedi o sopra cavalli spinti a corsa furiosa, moveva alla volta del tempio alpestre spargendosi per gli aperti piani o nascondendosi in ombrose grotte, avida di piacere e di sollazzo. Mancando dell'idea del peccato originale, e quindi del senso della colpa a seguito di un fatto sessuale, riteneva queste forme di vita perfettamente naturali. E finalmente giungeva al simulacro della Dea.

            Raffigurata come un'imponente matrona seduta in trono, le erano sacri fra le bestie il leone e, fra le piante, la quercia, il bosso e il pino, cioè alberi sempre verdi qual segno della potenza vegetativa delle pianure e delle selve. Il suo culto era congiunto a quello di Ati o Attis, il giovane amato più d'ogni altro dalla dea e da lei trasformato in pino; egli è il simbolo del ciclo della natura, cioè della natura che muore in inverno e rinasce in primavera. I suoi sacerdoti, i Coribanti, celebravano le megalesie danzando e sonando strumenti rumorosi: accompagnavano il simulacro della dea in processione con grida fanatiche, seguiti e imitati dalle turbe, dalla moltitudine esaltata; c'era massima libertà di linguaggio, e si usava una forma di licenziosità che andava dal semplice scherzo all'insolenza, all'insulto, all'oltraggio. Particolarmente la morte del giovane Nume e la sua resurrezione erano annualmente piante e salutate con grida di gioia. .

            La festa iniziava il 22 marzo con la processione di un gran pino, l'albero in cui era stato trasformato il giovane prediletto.

            Una corporazione di rurali aveva il compito di tagliarlo nel bosco, di appendere al centro del tronco, tra rose, ghirlande  e viole, un'immagine raffigurante il giovane dio, e di portare il tutto in processione per le strade boschive del monte secondo il descritto rituale orgiastico; l'albero veniva chiamato indifferentemente maius o magis, onde l'italiano maio o maggio, cioè quello che nel bosco è più grande degli altri e in cui la fantasia dei rozzissimi primitivi, in preda ad animi perturbati e commossi, vedeva il simbolo del potere germinativo e produttivo della vita. Il secondo e il terzo giorno andava in processione la dea, e si svolgeva uno spettacolo orientato sempre a eccitazione e frenesia collettive: nel rituale della rinascita vegetativa della natura era implicita l'idea della rigenerazione della collettività umana mediante una sua partecipazione attiva al ritorno della vegetazione, e quindi al rinnovamento di tutto il cosmo.

            Finite le feste, il vivere sereno di quanti prima erano stati invasi dal furore libertario, confermava l'impronta rituale della cerimonia.

            Orbene, nel VI secolo d.C. sul Partenio si ritirarono a vita eremitica Modestino vescovo di Avellino, e successivamente San Felice vescovo e San Felice prete, e sulle rovine del tempio fu elevata una cappella dedicata alla Vergine, destinata ad ingrandirsi nel secolo XII a seguito del ritiro a vita eremitica di San Guglielmo da Vercelli. Il culto di Cibele si estinse ma restò vivo nelle coscienze e nel costume delle popolazioni campane, sia pure ammorbidito e raddolcito dalla venuta della nuova fede. Da Montevergine si rifugiò a Baiano e nell'agro nolano, e quasi sicuramente giunse prima a Nola, poi passò a Cimitile, ove tuttorasi celebra la festa del Maio, e in ultimo venne a Baiano: i famosi gigli di Nola, prima di essere quelle macchine religiosamente ornate che oggi ammiriamo, fino al millecinquecento, e secondo altri fino al millesettecento, erano grossi alberi portati in processione, tra baldorie e scherzi di ogni genere. L'avvento del Cristianesimo informa molti riti di un impegno cristiano, e questo processo, cominciato all'epoca di Costantino, avanza lento, ma continuo fino all'età della Controriforma; ma la sostanza della festa rimane pagana, ispirata cioè a ben altri concetti che a quelli della carità e dell'amore. Del resto la Chiesa, quasi sempre radicale in campo teoretico, ma spesso duttile nei riguardi del patrimonio tradizionale dell'antichità classica, ben si rendeva conto che i pagani, anche se convertiti, mal volentieri si sarebbero staccati dai loro costumi: occorreva adattarsi ad usi difformi, ad ambienti diversi. Si verifica un fenomeno comune a moltissime feste, e cioè la trasposizione cronologica, il collocamento di una sagra pagana ad altri tempi per farla coincidere con una celebrazione cristiana. Il caso più tipico è quello di ferragosto; istituito da Augusto come feria di agosto, come vacanza estiva nei giorni uno e due del mese, allorquando l'urbe a motivo del gran caldo diventava un forno, fu fatto coincidere con la festa dell'Assunta. Così a Baiano il maio, erede del pino di Cibele, non si porta più in processione, per poi piantarlo, all'inizio della primavera, ma nel pieno dell'inverno, a Natale.

Probabilmente dal cuore di quel lontanissimo prete che operò la trasposizione non era assente il nobile intento di tradurre il ciclo rigenerativo della natura nella storia della Redenzione cristiana. Ma la realtà gli sfuggì di mano: è cambiato il mese, sono entrati altri elementi ornativi, come il castagno al posto del pino, ma la festa della grande pianta ha conservato la sua origine orgiastica e la sua funzione di ricaricamento vitalistico.

            Come ben nota Iamalio, si può sostituire nume a nume, ma, pur contenuta, resta l'indole dei popoli che conservano i propri caratteri e obbediscono alle proprie costumanze. Un antropologo comparatista, quando volesse, senza passione di sorta, confrontare due culti — quello della Gran Madre Cibele e quello della Madre di Dio — troverebbe non poche affinità: alle Megalesie d'età pagana si sono sostituiti, a maggio e a settembre, vivaci pellegrinaggi noti come « passate di Montevergine », cui non sono estranee forme rumorose e licenziose, con soste durante il viaggio per abbandonarsi ai piaceri della baldoria e della crapula. Fino a pochi anni fa una carovana di baianesi, sopra cavalli e muli, capeggiata da qualche buontempone, si portava in allegra brigata a Montevergine percorrendo quelle mulattiere che erano state battute dai lontani antenati calcidesi, tesi a raggiungere la verde cima di un monte per collocarvi, in uno col tempio, il culto della Gran Madre Cibele. Evidentemente per la mente di quei beoni nemmeno lontanamente passava l'idea che essi facevano un percorso di religiosità pagana, caro per più secoli ai remoti antenati della Magna Grecia.